A un certo punto del film una giornalista chiede al giovane Donald, che è ancora soltanto uno spregiudicato magnate del mattone: «Che cosa farebbe se perdesse tutto il suo patrimonio?». E lui: «Probabilmente mi candiderei come Presidente degli Stati Uniti».
The Apprentice è il film diretto da Ali Abassi che racconta Donald Trump a partire dagli anni Settanta, nei suoi primi vent’anni di carriera, sulla base di una sceneggiatura originale scritta dal giornalista Gabriel Sherman, corrispondente politico di Vanity Fair ed esperto della Destra americana.
Il film esce nelle sale statunitensi l’11 ottobre (in quelle italiane il 17, distribuito da BIM) a poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali che si terranno il 5 novembre e vedranno Trump in corsa col partito Repubblicano per tentare il secondo mandato, in contrapposizione alla Democratica Kamala Harris. Come possiamo immaginare, in Usa è destinato a suscitare un vespaio: già all’anteprima mondiale al festival di Cannes (dove era arrivato senza un distributore americano) ha diviso la critica tra sostenitori e detrattori dell’ex Presidente, mentre Variety lo definiva «spazzatura» e «pura diffamazione».
Fatto sta che quello che appare nel film è un ritratto di Trump per nulla lusinghiero, anzi, diciamolo pure: spaventoso.
Siamo a New York, sono i primi anni Settanta e Donald (interpretato dall’ottimo Sebastian Stan) è un giovanotto di belle speranze ossessionato dal proprio ciuffo e divorato dall’ambizione. Il padre Fred è un costruttore di una certa importanza che però non gli dà fiducia, del resto lui è ancora acerbo, un po’ sprovveduto e spesso gaffeur – vedremo in una scena come ad Aspen, mentre invita a cena quella che diventerà sua moglie Ivanka (Maria Balakova), scivola sulla neve e finisce in terra. Eppure Donald riuscirà presto a ritagliarsi uno spazio, entrando nelle grazie del controverso avvocato e faccendiere Roy Cohn (uno straordinario Jeremy Strong).
In un’importante scena del film è proprio Cohn a condividere col pupillo le “regole per vincere” che Trump farà sue: numero uno, attacca, attacca, attacca. Numero due: non ammettere niente, negare ogni cosa. Numero tre: dichiarare vittoria e non ammettere mai la sconfitta. Istruito dunque da un mentore che si presenta come un personaggio totalmente privo di scrupoli e di morale, Donald farà decollare la sua carriera, costruisce grandi alberghi e sposa la donna dei sogni che inizialmente lo ha respinto.
Tuttavia, il prezzo personale da pagare è altissimo: man mano che ha successo e si arricchisce corrompendo e ricattando, il giovanottone ambizioso si trasforma in una specie di mostro privo di sentimenti, capace di volgere le spalle al fratello in difficoltà, di imbrogliare la sua stessa famiglia e, nel gran finale, di disconoscere lo stesso mentore Cohn, ormai malato di Aids e bisognoso di aiuto.
Questo è quanto racconta il film, e non è mio compito, in questa sede, stabilire se effettivamente corrisponda a verità. Piuttosto lascio la parola ai suoi creatori.
«Il film non è un biopic su Donald Trump. Non siamo interessati a raccontare la sua vita dalla A alla Z, ma una storia molto specifica attraverso il suo rapporto con Roy Cohn» ha dichiarato il regista Abbassi. E lo sceneggiatore Sherman: «Mi venne in mente che il modo in cui questo mentore ha insegnato al giovane discepolo come parlare e come usare tutte le sue lezioni nell’arte oscura per ottenere il potere, poteva diventare un film».
Sherman ha raccontato anche di aver portato avanti ricerche approfondite, visionando filmati originali e intervistando persone che avevano conosciuto Trump da bambino ed ex colleghi di Cohn, compresa la sua assistente di lunga data Susan Bell ed altri del suo studio di New York, Saxe, Bacon & Bolan. «Si pensa a Trump come a una figura divisiva, ma in realtà è come un attore che interpreta un ruolo da così tanto tempo che questo diventa la sua identità» ha sottolineato. «Eppure, quando aveva poco più di vent’anni ed era proprio agli inizi, era una persona molto meno strutturata. Era aggressivo ed ambizioso ma, se si guardano le sue prime interviste, è affabile, un po’ esitante. Ha un certo fascino. È anche un po’ insicuro, l’opposto dell’uomo che conosciamo oggi. Questa è stata una delle parti più entusiasmanti del progetto: esplorare questi aspetti del suo carattere di cui nessuno parla mai».
In conclusione, va spesa qualche parola sull’ottima regia, che ricostruisce gradevolmente il mood degli anni Settanta e Ottanta, e sull’interpretazione dei due protagonisti Stan e Strong, davvero molto convincente.
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