Il calcio italiano e la dipendenza dai capitali esteri: Ivan Zazzaroni fa il punto sulla situazione con IlNewyorkese

La situazione del Taranto Calcio, alle prese con le difficoltà legate alla solvibilità degli acquirenti stranieri, solleva interrogativi più ampi riguardo agli investimenti esteri nel calcio italiano. Un fenomeno che, seppur particolarmente visibile nelle squadre di Serie A, si estende anche a realtà come quella della Serie C, dove il Taranto rappresenta un caso emblematico. Un contesto che potrebbe avere ripercussioni significative sull’intero panorama calcistico nazionale. Per analizzare questi meccanismi e le loro implicazioni economiche e gestionali, abbiamo intervistato uno dei massimi esperti delle dinamiche del calcio italiano e internazionale: il direttore del Corriere dello Sport Ivan Zazzaroni.

Direttore, la situazione del Taranto Calcio sembra aprire una questione legata alla disponibilità economica degli acquirenti stranieri. Come si sta evolvendo questo scenario?

«Non è una novità. Già in passato abbiamo avuto dei precedenti piuttosto illustri di acquirenti che si sono rivelati non solvibili. In effetti, ci sarebbe anche una regola che dovrebbe fare da filtro e discriminare gli accessi di compratori poco solidi, ma purtroppo questa regola non viene quasi mai applicata. Quindi, vediamo emergere situazioni come quella del Taranto, che non è certo un’eccezione.»

Perché tante società estere scelgono di investire nel calcio italiano, anche nelle categorie inferiori come la Serie C, come nel caso del Taranto?

«Sinceramente, sulla Serie C non saprei dare una risposta definitiva. Non ne capisco neanche il senso. Forse, il Taranto viene scelto per il suo potenziale. È una piazza importante, con una sua storia e una forte voglia di riscatto. La città è sempre stata un po’ delusa dai precedenti proprietari e dalle stagioni non brillanti della squadra. A mio avviso, ci può essere la speranza di rilanciare un club come il Taranto con investimenti minori, ma con la possibilità di ottenere guadagni grazie a un’eventuale rivendita futura, una volta che la società sarà messa in una condizione migliore. Altri, invece, si avventurano in queste operazioni sperando di raccattare il massimo con risorse minime. Ma, se parliamo di Serie C, c’è una differenza sostanziale con la Serie A, dove la situazione è ben diversa.»

Massimo Giove (a sinistra) con Mark Capbell (a destra) nella foto di rito che annunciava la firma del preliminare d’acquisto | via tarantofootballclub.it

Passando alla Serie A, qual è il suo giudizio sulle proprietà straniere che hanno investito in Italia, soprattutto quelle americane?

«Gli americani in Italia sono numerosi: ci sono italoamericani, canadesi, americani puri e anche fondi d’investimento come Elliott. Il problema principale, però, è che manca spesso la conoscenza della storia del calcio italiano, e soprattutto la passione. Quando l’approccio è troppo orientato al business, viene a mancare il linguaggio del nostro calcio, che è un settore particolare. Non è un’azienda come le altre, ha delle dinamiche che richiedono competenza specifica. Quello che manca in molti casi è proprio questa conoscenza del settore, che può portare a delle incongruenze e a delle difficoltà nella gestione delle squadre.»

Ci può fare qualche esempio concreto?

«Il caso degli italoamericani come Commisso e Saputo è interessante. Dopo un inizio difficile, entrambi sono riusciti a portare risultati positivi con le loro squadre. La situazione della proprietà americana del Milan è più complessa, in quanto si basa su un prestito da parte del Fondo Elliott. Poi ci sono i Friedkin alla Roma: dopo un successo iniziale, ora sembrano voler aprire la strada a nuovi investimenti, tanto che stanno comprando l’Everton. Ogni situazione è diversa, e mentre io sono più favorevole alle proprietà italiane, va detto che queste spesso non hanno più le risorse per competere, e quindi ci si rivolge ai soldi, che vengono spesso dall’estero.»

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C’è un modello di gestione che secondo lei potrebbe funzionare meglio in Italia? Prendiamo ad esempio l’Atalanta, che è stata ceduta a un Fondo Usa, ma ha mantenuto il controllo della famiglia Percassi. È questo l’esempio da seguire?

«Sì, quella potrebbe essere una soluzione virtuosa. La famiglia Percassi ha mantenuto una quota di minoranza, ma continua a gestire in modo efficace il club, con una conoscenza approfondita del calcio e delle dinamiche del nostro campionato. Antonio Percassi è stato calciatore, e Luca è entrato molto bene nel mondo della gestione calcistica. Inoltre, hanno anche una dimensione internazionale, il che li rende più competitivi. Un altro modello che funziona è  quello  dell’Inter dove, pur cambiando proprietà straniere, prima Zang e adesso Oaktree, il management è rimasto sempre italiano, con persone come Marotta e Ausilio che conoscono a fondo la realtà del calcio italiano. Credo che la gestione affidata a dei manager italiani competenti, che abbiano grande conoscenza del nostro campionato e del nostro calcio, unita alla disponibilità di capitali internazionali, possa essere la formula giusta per il futuro.»

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