Emiliano Ponzi racconta Together, la mostra alla Philippe Labaune Gallery

Emiliano Ponzi è oggi riconosciuto come uno degli illustratori italiani di punta a livello internazionale. Con una carriera di oltre vent’anni, Ponzi ha collaborato con alcuni dei marchi e media più prestigiosi, da Apple a Tiffany, dal New York Times al Le Monde. Ma la sua arte, fatta di eleganza visiva e profondità concettuale, non si ferma alle illustrazioni su commissione: la mostra Together, presso la Philippe Labaune Gallery di New York, rappresenta l’evoluzione del suo linguaggio artistico, che esplora l’intimità delle relazioni umane attraverso la pittura su tela. In questa intervista, Ponzi ci racconta il percorso che lo ha portato a questa nuova fase e le impressioni sullo sviluppo inverso: dal mondo digitale a quello delle gallerie.

Ciao Emiliano e grazie per essere qui. Partiamo direttamente dall’evento: raccontami di questa mostra, com’è nata?

“Io vengo da venti e passa anni di carriera, in quella che può essere considerata illustrazione commerciale. ‘Commerciale’ perché identifica il lavoro per i clienti; ho lavorato per Apple, New York Times, Louis Vuitton, Moleskine: insomma, il mondo dell’illustrazione su commissione. Tutto è digitale. Poi, da 4 anni, ho avvertito questa necessità di trasportare anche l’estetica e il contenuto delle mie illustrazioni in un mondo di galleria. Quella che viene considerata, non so se a ragione o a torto, arte con la ‘A’ maiuscola. Ho iniziato un percorso di pittura, acrilico su tela, e ho fatto le mie prime quattro mostre in una galleria che ha sede a Milano – la Marco Rossi Arte Contemporanea -, dove sono esposte opere di artisti bravi, navigati, italiani. Una galleria importante da tanti anni. Da lì, diciamo a metà di questo progetto, mi sono trasferito a New York: qui ho trovato la Philippe Labaune Gallery, dove si terrà la mostra Together, dal 7 novembre. Questa mostra rappresenta 14 grandi dipinti su tela, quindi acrilico su tela. Ci sono anche una serie di studi su carta, a matita o a china, che vanno a raccontare il mondo di una relazione. Per ogni quadro ho scritto delle righe di testo, come se fosse una pagina di diario che uno e l’altro della coppia scrivono in merito a cosa pensano di una certa situazione, di un ricordo, di un momento passato assieme, di una separazione. È come se fossi partito da queste pagine immaginarie di diario e avessi poi disegnato quelle, non in maniera didascalica, ma come se avessi disegnato la sensazione trasposta dalla pagina del diario al dipinto.”

Hai usato la parola “immaginario”, quindi ti chiedo: è un lavoro autobiografico oppure è frutto di una necessità interiore, di un discorso artistico? Da dove viene l’ispirazione?

“Da un lato, come dicevo all’inizio, c’è sempre dell’autobiografia: tutti abbiamo avuto esperienze – nelle relazioni, sicuramente, ne abbiamo -, siamo stati dalla parte della ragione ogni tanto, dalla parte del torto, siamo stati arrabbiati con il nostro compagno o con la nostra compagna, frustrati, abbiamo amato, siamo stati amati, non abbiamo ricambiato… da un lato c’è ovviamente una parte autobiografica. È condita però anche da fiction, perché deve essere livellata universalmente e comprensibile a tutti. C’è una parte che rispondeva a un desiderio: di trovare un senso. Che sia l’illustrazione commerciale o meno, secondo me l’arte deve raccontare una storia. Sento l’esigenza che ogni immagine debba raccontare una storia, essere un fotogramma di un film più lungo. Il fotogramma giusto, ma di un film più lungo. Ci deve essere la percezione di una storia, che viene narrata attraverso quel frame.” 

Quali ti aspetti che siano le sensazioni del pubblico alla mostra?

“Io spero di aver realizzato delle immagini dettagliate ma non troppo, in modo che il pubblico possa trovare uno spazio vuoto in ognuno dei quadri e proiettare una sensazione personale legata a quello che vede. Per esempio, c’è un quadro nel quale vengono rappresentate due persone molto piccole e un tramonto, delle montagne innevate. Pur essendo un quadro molto grande è abbastanza vuoto, non ci sono tanti dettagli. Spero che qualcuno possa immaginare, guardandolo, quella volta che è andato in montagna – magari non necessariamente con il compagno o con la compagna, ma con la famiglia -. Quella volta che si ricordano il profumo della neve, oppure la luce calda di un tramonto sulla neve, ovvero il freddo, la temperatura fuggente dell’inverno. Spero di riuscire a suscitare, a muovere qualcosa. Che sia appunto un ricordo, una memoria o una sensazione slegata. Che possa essere attivata come se i quadri facessero da trigger e facessero attivare delle sensazioni.”

All’inizio mi hai detto che questo passaggio dal digitale alla galleria viene visto un po’ come il passaggio all’arte con la “A” maiuscola. Ti senti più artista ora o ti sei sempre sentito artista?

“È un’ottima domanda, devo dire che il processo che seguo è chiaramente lo stesso. Se mi chiama il New York Times e mi dice ‘guarda, c’è questo articolo da illustrare’, oppure un altro cliente mi dice c’è quest’altra illustrazione da preparare… comunque si parte da una storia, il mio processo mentale è uguale, non ho seguito un processo diverso. Il viaggio è lo stesso ma cambia, secondo me, l’atterraggio: un conto è avere un’immagine digitale che può essere replicata migliaia di volte, infinite volte. E poi è vero, ci sono gli NFT, c’è tutto l’aspetto dell’arte digitale che si può vendere, certificata come pezzo unico. E io ho fatto anche questa esperienza. Ho fatto una serie di NFT con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, che le ha musicate. È vero, però, che avere il pezzo unico, reale, significa avere un pezzo dove l’artista si è messo davvero in gioco. Per esempio, se fai un errore al computer è facile correggerlo; se lo fai su un quadro sono problemi, non è che torni indietro. C’è un rapporto con l’errore, un rapporto con la materia, un rapporto col corpo. Dipingere stanca, c’è inoltre un rapporto con la tecnica, trovare il colore giusto… è un approccio diverso. Credo che sia molto bello il fatto che un quadro, oltre ad essere unico, sia anche deperibile. La deperibilità è una cosa preziosa: oggi è così, tra dieci anni si sarà rovinato. Ha un valore come l’essere umano che invecchia, cambia, muta. Mentre il file digitale, sai, lo tieni in un hard disk, lo tieni su un cloud, tra cent’anni è uguale.”

Da quanti anni sei a New York?  E in che modo questo spostamento ti ha aiutato con la tua carriera? Quali potrebbero essere i consigli che daresti a degli artisti come te? Sull’arrivare a New York, su cosa New York può offrire…

“Sto qui a New York da un po’ più di due anni. Credo che quello che ti dà, chiaramente, sia un allargamento dell’esperienza. Prima di tutto perché è chiaro che in Italia – ma viene da dire l’Europa in generale -, è tutto molto più piccolo. Il mercato è più piccolo, le persone sono più uguali. Qua le persone sono diverse tra di loro; in una città come New York incontri persone differenti, fai esperienze differenti, e questo aumenta quella che è la percezione di te. Ti arricchisce perché ti confronti con l’altro, è la cosa più utile. Il consiglio che darei a un artista è: vieni consapevole che l’America non è l’America del sogno americano che ci hanno sempre raccontato, ma è un posto – almeno New York -, duro e spietato. C’è tanta competizione, vivere qui ha un costo – sia in termini monetari che in termini energetici -, è una città che stanca moltissimo. Per cui è importante cercare di venire con le idee chiare. Non si può più venire con la valigia di cartone, non si può più ragionare in maniera naive come si poteva fare fino a forse venti o venticinque anni fa. È un posto nel quale devi sapere già cosa stai cercando, e a quel punto probabilmente lo trovi. Lo trovi prima rispetto all’Italia o altrove.”

L’articolo Emiliano Ponzi racconta Together, la mostra alla Philippe Labaune Gallery proviene da IlNewyorkese.

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