In Italia esce Napoli – New York: intervista con Gabriele Salvatores

Nelle sale italiane esce oggi (21 novembre) ma non ha ancora una distribuzione in Usa, anche se Napoli – New York, l’ultimo film del regista premio Oscar Gabriele Salvatores senza dubbio arriverà presto nei cinema americani. Quanto meno per il tema che tratta, ovvero l’immigrazione italiana in America nel Dopoguerra.

Tratto da una sceneggiatura scritta da Federico Fellini con Tullio Pinelli e ritrovata tra le carte dello sceneggiatore, è una sorta di favola per adulti che racconta la storia di due bambini nell’immediato Dopoguerra, e comincia tra le macerie di una Napoli piegata dalla miseria. 

Carmine e Celestina, due scugnizzelli rimasti senza famiglia, rispettivamente di 12 e 9 anni, si ingegnano a sopravvivere come possono, aiutandosi a vicenda. Finché una notte, quasi involontariamente, finiscono imbarcati come clandestini su un piroscafo diretto a New York, dove vive la sorella di Celestina, emigrata mesi prima.  Uniti ai tanti emigranti italiani in cerca di fortuna sbarcano in una metropoli sconosciuta, che dopo numerose peripezie, impareranno a chiamare casa.

I due piccoli attori, eccezionali, dei quali vi innamorerete a prima vista, sono Antonio Guerra e Dea Lanzaro, nel cast accanto a loro ci sono Pierfrancesco Favino, Anna Ammirati, Omar Benson Miller, Anna Lucia Pierro, Tomas Arana e Antonio Catania.

Salvatores, come mai ha deciso di raccontare una storia come questa? 

«Ero venuto in possesso di questo manoscritto di Fellini e Pinelli, un “trattamento sceneggiatura” di circa 80 pagine di cui non si sapeva praticamente nulla, e già mi era sembrata una cosa meravigliosa. Quando poi l’ho letto, la meraviglia è diventata desiderio e spinta creativa. La storia è bellissima, i temi del viaggio, dell’altrove e della solidarietà li ho trattati spesso nei miei film e lavorare coi bambini mi ha sempre dato gioia. I bambini non “recitano”, vivono davvero quello che stanno facendo in un “gioco” molto serio. Non è un caso che in inglese “recitare” sia “to play”, lo stesso verbo usato per “giocare”». 

Il tema dell’emigrazione ancora oggi è molto attuale.

«Assolutamente. E infatti mi sono trovato davanti a una storia avventurosa, divertente e commovente che ci racconta come una volta eravamo noi i “migranti”, gli “stranieri”, i “diversi”. Oggi viviamo un momento storico pieno di diffidenza e di odio, e io avevo voglia di fare un film che parlasse di solidarietà. Perché se guardiamo da vicino chi è diverso da noi, se lo conosciamo, poi possiamo anche volergli bene. Questo film vuole offrire una piccola pausa alla cattiveria che imperversa nel mondo, e spero ci faccia pensare che tutto sommato possiamo anche essere migliori di quello che siamo».

Ci racconta come è arrivato alla sceneggiatura?

«Attraverso un percorso incredibile. C’è un libro che esce in questi giorni in Italia pubblicato da Marsilio e che si intitola proprio Napoli – New York, in cui ce lo racconta lo stesso curatore Augusto Sainati, professore universitario e critico cinematografico. A me lo ha raccontato personalmente. Insomma: Sainati era amico di Pinelli e un pomeriggio, quando lo sceneggiatore era già parecchio anziano, era andato a trovarlo. Al momento di andar via, Pinelli gli chiede una gentilezza: ho un baule pieno di scartoffie, per favore portalo via e bruciale. Sainati si incuriosisce: che tipo di scartoffie? E lui: mah, robe scritte con Fellini. E allora Sainati gli risponde: va bene, io lo porto via, ma prima di bruciarle le leggo. Così il manoscritto di Napoli – NewYork è finito insieme ad un altro, che però era parecchio complicato e meno interessante, nello studio di Carlo Patrizi, lo storico avvocato di Cinecittà.  E alla fine mi è stato proposto». 

Lei come ha reagito?

«Inizialmente ne ho avuto molta paura. Poi ho scoperto che c’erano tante cose che mi riguardavano e che forse avrei potuto utilizzarlo». 

Com’era il manoscritto originale?

«La storia è stata scritta alla fine degli anni Quaranta, prima che Fellini mettesse a punto la poetica personale che lo ha reso famoso nel mondo. Il racconto si organizza in maniera tradizionale, nei classici tre atti e, anche se si può parlare di realismo magico, la storia non contiene gli elementi surreali e onirici che hanno caratterizzato la produzione successiva del Maestro. Appartiene a un momento di passaggio del nostro cinema, dal neo-realismo alla commedia all’italiana e ai primi tentativi di un cinema più “fantastico”. Fellini, tra l’altro, aveva collaborato alla sceneggiatura di Paisà, il film del ’46 di Roberto Rossellini, che lui stesso cita nel soggetto.  Napoli – New York è ispirato a una storia vera raccontata come una favola, scritta con grande bravura nel tenere desta l’attenzione dello spettatore con continue svolte e colpi di scena. Un film “classico” potremmo dire, ma con un’anima molto moderna. Del resto, Fellini diceva che la realtà è spesso deludente».

E lei come ha lavorato all’adattamento?

«Il trattamento era molto dettagliato, con situazioni e dialoghi precisi, e da questo punto di vista mi sono tenuto il più possibile fedele all’originale. Il procedimento giudiziario che coinvolge la sorella di Celestina è in gran parte ispirato al vero, perché la prima donna condannata a morte negli Stati Uniti era proprio un’italiana Io ho cercato di rendere ancora più serrato il racconto e di “modernizzare” alcune situazioni che mi sembravano troppo legate ad una sensibilità e a un tono narrativo ormai obsoleti. L’America e gli americani, ad esempio, a volte sono visti ancora avvolti da un’aura un po’ troppo “benevola”, quella di un luogo dove si realizzano i sogni. Tuttavia, non ho dovuto intervenire molto, perché lo sguardo dei due autori è molto attuale e a volte persino duro». 

Che cosa invece ha cambiato? 

Il finale, che secondo me non era ben chiuso, ma forse perché il soggetto era stato un po’ abbandonato. E poi la parte che si svolge a New York, perché lo stesso Fellini scrive: Napoli la sappiamo raccontare, ma in America non ci siamo mai stati e quindi ce la siamo un po’ immaginata. È stata questa sua dichiarazione, in effetti, a darmi la chiave direttiva del film. Del resto  l’America che io ho sempre amato per il suo cinema, per la musica e la letteratura oggi non è più quella. E all’epoca in cui Fellini scriveva c’era forse troppa fiducia nella capacità del popolo americano di comprendere le difficoltà degli altri». 

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