A volte capita che il sogno americano si annidi nelle più recondite ipotesi, tanto che – ad ascoltare gli avvenimenti – ci si domanda dove finisca l’illusione ed inizi la realtà. È il caso di Raffaella Galliani, bergamasca d’origine ed oggi Foreign Language Instructor & Curricula Developer presso la scuola Speakitaly di New York City da lei fondata, dopo lunghe peregrinazioni impregnate di sentimenti e burocrazia. Per meglio comprendere il legame apparentemente inesistente fra questi due capitoli della vita, le poniamo qualche doveroso quesito.
Ma è vero che venisti negli Usa già a 17 anni? Avevi le idee chiare, allora…
«La verità è che i miei genitori mi mandarono nel New Jersey di malavoglia vent’anni fa, per uno scambio interculturale all’interno del quale avrei dovuto frequentare un corso di inglese per recuperare un debito formativo. Paradossalmente mi trovai in un’altra famiglia, non quella che avrebbe dovuto accogliermi in origine, in quanto quest’ultima fu bloccata da un uragano in Florida. E questa è solo la prima di una serie di coincidenze che hanno forgiato il mio destino personale e professionale».
E poi perché decidesti di tornare?
«Iniziai col fare un mese di vacanza, poi mi innamorai e tornai dalla mia host family ogni anno fino all’anno in cui decisi di affittare una stanza da sola a New York e, in quell’occasione, incontrai il mio futuro marito. Tornai in Italia, accettai un lavoro come cameriera in una discoteca e misi via più soldi possibili per tornare a New York. Dall’Italia mandai CV nella speranza di uno sponsor e quindi di un’opportunità di lavoro. Sbarcata a New York andai al primo colloquio alla YMCA di Central Park West dove, entusiasti di assumermi, cambiarono subito idea appena capirono che non avevo un permesso di lavoro. Il colloquio successivo fu con un istituto privato di lingua dove la dirigente, in realtà, non aveva bisogno di organico ma mi offrì un lavoretto quando capì che stavo cercando lavoro per amore – e io accettai di darmi al volantinaggio, percorrendo isolati e isolati con lo zaino in spalla.».
Dall’insegnamento al volantinaggio è un bel salto, ma poi?
«Un giorno, mentre ero in metro, mi arrivò una telefonata da scuola: avevano urgente bisogno di un’insegnante di italiano, così mi fiondai in classe ed ebbi un feedback talmente positivo che i ragazzi chiesero di continuare l’insegnamento con me. Dopo il primo mese di prova in cui riscontrai successo, la dirigente decise di sponsorizzarmi e a formarmi a dirla tutta, come insegnante di italiano come lingua straniera. Un solo grande neo in tutto questo: il visto lavorativo di un anno scadette senza che io me ne rendessi conto e, non avendo più diritto a permanere negli Usa per motivi di lavoro, mi giunse una lettera con scritto che avevo 30 giorni di tempo per abbandonare il Paese e, con esso, anche il mio fidanzato. Dovetti stare lontana dagli States per molti, molti anni, in quanto dopo quel visto bisogna farne passare 3-4 prima di fare una nuova richiesta».
Non deve essere stata una passeggiata. Una volta rimpatriata cos’hai fatto?
«Mandai il mio cv a diverse scuole di Milano che si occupavano dell’insegnamento della lingua italiana agli stranieri, e nel 2006 ebbi l’opportunità di accedere ad una realtà che si trovava nella zona di Porta Venezia. In quel periodo terminai gli studi universitari discutendo i quattro esami che mi mancavano ed ebbi modo di rivalutare parecchio l’Italia. Da giovanissima volli scappare dalla “provincia”; dal mio piccolo paesino nel bergamasco, ma Milano era diversa ed ero contenta di star lì. In quegli anni ho anche acquisito la certificazione per l’insegnamento e lavorato con i Marines presso il Consolato degli Usa a Milano».
C’è una canzone di Venditti che fa: “certi amori non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano”. Tu eri riuscita a scordare i tuoi legami affettivi e lavorativi con la Grande Mela?
«In fondo direi di no, poiché quell’uomo oggi è mio marito e sono riuscita a sviluppare un mio solido business proprio a Manhattan. Intanto, ero impegnata agli studi della specialistica alla Sapienza di Roma, ma nei panni della pendolare da Milano, perché sopra iniziavo ad avere molti alunni e non volevo abbandonare i miei guadagni. Nel frattempo, mio marito mi inviava messaggi su msn dicendomi “dovresti tornare a casa, ma quando vieni a New York?” e io non gli rispondevo mai. Poi tornai da lui con un visto turistico con la precisa intenzione di chiudere definitivamente un capitolo della mia vita e lasciarlo alle spalle una volta per tutte ma, appena lo incontrai, capimmo che ci piacevamo ancora. In quei giorni ritornai nella mia “vecchia” scuola dove insegnavo e, leggendo le tante esperienze accumulate nel tempo, mi venne proposto di ritornare lì con un visto H1B per personale altamente specializzato con un elevato livello d’istruzione: non mi lasciai di certo sfuggire quest’opportunità».
E poi è stato tutto in discesa?
«Altroché! Già ottenere l’H1B è una lotteria, poiché lo sponsor viene, innanzitutto, sorteggiato. Dopodiché si deve compilare e consegnare un documento che consta in una dichiarazione della propria “eccellenza”. Finalmente il 20 settembre del 2012 potei rimettere piede negli Usa da professionista e chiamai mio marito per dirgli che tornavo a casa. Il contratto, tuttavia, non aveva un buonissimo livello salariale, così cercai di riprendere a dare lezioni private extra. Le cose andarono bene, tanto che il mio nome come insegnante di francese, italiano e spagnolo camminava di bocca in bocca fra tante famiglie, anche in ambienti di personaggi noti».
Speakitaly è la scuola di lingue fondata da Raffaella Galliani
Ma come sei arrivata a fondare una scuola tutta tua?
«Dopo quasi cinque anni di permanenza a New York organizzai un pranzo domenicale in cui invitai tutti gli studenti conosciuti negli anni. Mangiammo insieme pizza in un ristorante dell’East Village, e quel giorno ebbi l’illuminazione: da lì era possibile creare un evento; “The Sunday Lunch”. Aprii la pagina Facebook e la feci girare fra gli studenti, attirando nuova gente. Arrivai anche a pubblicare il pranzo su Eventbrite! I miei studenti aumentavano giorno dopo giorno, e anche i miei eventi riscuotevano successo, tanto che il mio contratto con l’istituto andò incrinandosi. Nel 2015 aprii anche la pagina Instagram, trasformando il Sunday Lunch in una sorta di “scuola”, ed uscì il nome Speakitaly. Il 14 febbraio 2016 aprii una società senza meta e trovai una stanza microscopica ma bellissima: 1700 dollari al mese dove ricevere gli studenti, perché non ce la facevo più ad andare su e giù per cercare un posto dove sedermi. Quando questa attività parallela arrivò alle orecchie del mio capo, arrivò il licenziamento in tronco. Nel frattempo fatturavo sempre di più e una giornalista mi volle spingere gratuitamente pubblicando un articolo, semplicemente perché le piacqui».
Speakitaly è nata quasi per caso, quindi. È il vero sogno americano?
«Penso di incarnare perfettamente il sogno americano: arrivai senza niente. né visto, né soldi, né sponsor, ed avviai una società senza sapere dove stessi andando. Oggi in Speakitaly siamo una squadra di 14 persone, 280 studenti e New York ci ha scelto».
L’articolo Business per caso: se il sogno americano supera le asperità proviene da IlNewyorkese.